Il poeta brianzolo e il barone salentino

Il poeta è nato in brianza, a Macherio, case messe accanto a Monza, al suo parco e alla reggia del Piermarini. Il “barone” invece, nacque a Lecce, città nobile, culla del Barocco. Scrissero storie e duelli nella Torino degli anni settanta. Furono un pezzo di calcio, quello vero, che riempiva gli stadi.

Il poeta è nato in brianza, a Macherio, case messe accanto a Monza, al suo parco e alla reggia del Piermarini.

Quella del poeta è una storia nata dalle giovanili biancorosse, pomeriggi di allenamenti al vecchio Brianteo. Un ragazzo e i suoi viaggi in bicicletta verso il vecchio impianto sportivo con le scarpette chiodate nella borsa, pedalate dentro le contraddizioni delle stagioni padane. Colori opposti, come il clima tra gelo, nebbie e sole esagerato, foglie brune e smeraldo.

Quella del poeta è anche una storia di talento a prescindere. Fantasia, velocità, estro, qualità messe assieme e confuse, tanto che era difficile dare un ruolo preciso ed inquadrare il giovane che diede un contributo decisivo alla salita del Monza in serie B per la stagione 1966-1967.

Ma anche senza definizioni, i piedi e la velocità d’idee del poeta agli occhi del grande calcio non sfuggirono, e per lui la serie A volle dire allontanarsi dalle nebbie dei mobilieri per abbracciare i soli di Napoli, sia quello che baciava il Vesuvio, sia quello calcistico, Sivori vicino al ritiro, ma ancora grande.

“Piccolo Sivori”,  in pochi mesi il poeta di Macherio si meritò il soprannome giocando in tutti i ruoli dell’attacco. Alla fine Chiappella per non imbrigliarlo lo schierò come fantasista, ma anche lì il giovane brianzolo sembrava soffocare, messo troppo appresso alle punte tendeva a cercare uno spazio per sgroppare che, sistemato lì in mezzo, non aveva.

Era il 1968. Anno di contestazioni  e di follie. In campo calcistico il folle fu Orfeo Pianelli, mosso da un sogno, rifare grande il Torino. Il presidente granata scelse il poeta per piazzare il colpo dell’estate. Lo comprò con un’offerta record dell’ultima ora, quasi mezzo miliardo, somma a cui i partenopei non poterono dire di no. E così, alle porte di settembre, il ventiduenne prodigio tornò al nord, dove lo attendevano però ancora stagioni da incompreso. Fu considerato un centravanti che non segnava, poi un  fantasista che correva troppo, finchè. nel 1975 alla corte granata arrivò un rivoluzionario anche egli brianzolo che prese l’attaccante che si era fatto crescere i baffi, e lo trasformò, facendo diventare Claudio Sala “poeta del goal”, così come il mondo del calcio da allora lo chiamò.

Il “barone” invece, nacque a Lecce, città nobile, culla del Barocco.

In realtà i suoi primi anni non furono vicende da grandi signori, ma un’esistenza del tutto simile a quella degli emigranti, anche se più privilegiata, perché il campo di calcio non era la catena di montaggio della fabbrica. Debuttò nella sua città. Poi, ancora ragazzo, emigrò a giocare nelle Marche e da lì, ogni tanto, partiva con scarpe chiodate al seguito a far provini per le squadre del nord, quelle grandi, quelle ricche.

Provava, riprovava, piaceva spesso ma nessuno che alla fine gli dicesse un sì convinto, finchè un giorno arrivarono un provino della Juventus e un uomo che lo osservò solamente per qualche minuto e poi lo invitò ad uscire dal campo. Il barone, interrotto così precocemente pensò subito all’ennesimo no e invece semplicemente era il sì di uno che il calcio e i calciatori li sapeva riconoscere a fiuto, sbagliando quasi mai. Quell’uomo era un ex impiegato delle ferrovie che di nome faceva Luciano Moggi,.

Come prestito bianconero, il leccese venne mandato a farsi le ossa al sud. Prima Reggio Calabria, poi Palermo finchè nel 1970 in casa Fiat non si decise che, ricalcando un viaggio di altri tanti suoi coetanei, era ora che il giovane calciatore tornasse in settentrione. Solo che il viaggio al nord di Franco Causio era più fortunato di quello di tanti altri, la sua Torino volle dire leggenda, tanto che sarà ben presto chiamato da uno stadio che lo idratava: “Il barone”.  

E’ dunque nella Torino di smog acciaio e piombo degli anni settanta che si incrociarono le strade del poeta e del barone, divenendo la stracittadina che dal ‘75 al ‘78 dominò il calcio italiano. Un Derby ai vertici del bel paese, bello quanto il calcio quando racconta storie.

Ma avevamo lasciato Claudio Sala che ancora non si chiamava poeta del goal. Era il 1969 e in realtà fu una marcia lunga quella  verso la leggenda granata sia per la società, sia per la squadra, sia per Claudio Sala. Un cammino difficile ed arduo che durò fino al ’75, l’anno d’arrivo di Gigi Radice.

Al contrario, messo nell’altra faccia del calcio cittadino, Causio non dovette aspettare così tanto. Sostenuto da Armando Picchi e dagli allenatori che seguirono, già nel 1973 il barone era in nazionale. E forse fu proprio questo imprinting che fece del “nobile” il primo fantasista della gerarchia calcistica azzurra, e del “poeta” granata solo il secondo. Oltre sicuramente al fatto, che uno era l’alfiere della squadra degli Agnelli coi suoi indubbi mezzi comunicativi, l’altro il poeta di una squadra proletaria, un po’ troppo da sognatori, un po’ troppo olandese, sia nell’estro che negli svaghi, sia nella continuità che nella disciplina tecnica.

Proprio per questa maggiore fedeltà ai canoni, sia chiaro, il barone non rubò nulla, anzi donò uno splendido periodo alla nazionale italiana, probabilmente il più glorioso, quello che attraversando il mondiale argentino  arrivò a quello spagnolo.

I numeri del triennio torinese 75/78 sono ben espliciti. La Classifica: ‘75 Toro campione- seconda Juve. ‘76 Juve campione secondo Toro. ‘77 Juve campione, terzo Toro dietro il Vicenza rivelazione. Ma ancor più incisiva è l’impressione che l’autentico della serie A in quegli anni fosse solo Torino. E il sentimento del calcio quei due: i baffi nobili del barone  bianconero, e quelli contestatari del poeta granata.

Claudio Sala e Franco Causio. Entrambi spiriti ribelli, entrambi spiriti estrosi, entrambi fulminei e irriverenti. Capaci di tutto, e a volte anche capaci di niente, a seconda dell’estro, della fantasia,

proprio come i poeti, perché anche il soprannome di barone veniva dall’eleganza estetica con cui Causio accarezzava il giocare al calcio. Poesia…

“Il poeta cerca solo di mettere la testa in cielo” diceva Chesterton. Anche il calcio del “poeta” e del “barone” era là, tanto che a raccontarlo ti permette di poter guardare ancora lassù, lasciando perdere ‘sta roba di oggi che chiamano calcio, ma va ne tribunali, e si permette di far sedute spiritiche risvegliando le voci al telefono dei galantuomini, per dimostrare chissà poi che cosa…