Luci a San Siro

Si partiva alla mattina. San Siro, il piazzale, erano lo Sport. Lo stadio. l'ippodromo. e un poco più in la il Palasport. E poi il Vigorelli... Cultura, erano semplicemente cultura.

“Luci a San Siro, di quella sera, che c’è di strano, siamo stati tutti là… Ricordi i giochi, dentro la nebbia…”
Così cantava Vecchioni negli anni settanta.
Versi che  portano là, a quel Piazzale dello Sport. A quella Milano là. A non sapere… Se quelle luci sciolte dalla nebbia erano quelle di uno stadio ancora non liofilizzato dall HD, o quelle dell’ippodromo,  bright light New York, o i neon del foyer del palasport, architettura d’avvenire trapiantata nella Milano agra del Pirellone.
Già… allora, il piazzale dello Sport, era un ventaglio d’opportunità. Un tanto. Un troppo.
Una eccellenza sportiva oggi scomparsa. 
E, così, adesso, il senso di quella canzone e il non poter ricordare il luogo specifico dove potresti essere stato  non è solo vezzo per  una introduzione. E’ anche fotografia in bianco e nero di una ventata gelida. La presa di coscienza di una realtà agonistica che non c’è più. Di una cultura che non c’è più. Di una quotidianità e di un valore economico ormai,  scomparsi.
Calcio, ippica, ciclismo, al loro top.
Allora, a Milano li avresti potuti incrociare davvero dentro la nebbia. Affermazione di moda e avanguardia sportiva. Era un privilegio di Milano confondere in pochi passi un pomeridiano del trotto ad una partita di coppa dei campioni (non ancora champions), e magari, chiudere con una capatina all’americana di chiusura della sei giorni.
Scrivi canzoni, scrivi Vecchioni, che più ne scrivi più sei bravo a far dane. Righe di nostalgia? Di chi non vuole riconoscere un progresso? Bah!!! E’ che accostando i fotogrammi, un prima e un adesso, qualsiasi dato del “personalissimo” cartellino chiamato cultura sportiva dà meno. Cultura sportiva, come cultura e basta, appartenenza, conoscenza fondamentale, da trasmettere, da condividere,  a fare generazione dopo generazione.
La sei giorni di Milano, sepolta sotto le macerie del palasport “da bere” dopo la nevicata dell’85, poi nata, rimorta, e rinata, senza entusiasmi, era la luce dell’inverno ciclistico, e non solo meneghino.
Di lì, prima dal Vigorelli e poi dal Palasport, ci passavano tutti. Gli specialisti, e i campioni della strada, attratti da un buon gettone.
La sei giorni milanese era un evento, la vetrina mercantile e mass mediatica del tutto chiamato ciclismo su pista. Per costruire un successo commerciale come quello della “pista” ci sono volute le stesse componenti che hanno fatto, di una nazione devastata, una delle prime economie del pianeta.
Alla base c’era un popolo considerato assieme di “individui” e non semplici “terminali di consumo”. Anime. Voci ed entusiasmo.
Luci a San Siro, di quella sera, che c’è di strano siamo stati tutti là...
La pista, come il ciclismo. Come il calcio, il pugilato, di allora.
L’intuizione delle potenzialità di tribune sempre piene.
I protagonisti. Le furbizie e le miserie erano quotidianità talmente solida da divenire disputa dentro i bar e favola da raccontare ai nipoti. Erano “cultura”. Da meritare inchiostro ben speso, letteratura. che riempiva e arricchiva le pagine  dei giornali.
Erano memoria solida, identità, quindi valore economico
Certo, per far lievitare tutto questo c’è voluto denaro. L’investimento di una classe imprenditoriale che comprese l’eldorado che poteva essere una cultura e una favolistica dell’agonismo.
Sport come veicolo pubblicitario, ma anche formatore di un pubblico che doveva crescere culturalmente, per poter passare dal bisogno del mastello, a quello della lavatrice.
Restiamo a Milano.
Lavatrici come Ignis. Ignis come Borghi. In pista, e nel ciclismo, Borghi come Maspes.
La pista offriva un vantaggio. Faceva stare il pubblico lì, fermo, per ore e ore.
La pista era una televisione ante litteram. Offriva una corsa che non era passaggio, ma evento statico, da toccare. Lo sport allora era un melodramma di campioni che mosse il belpaese per un trentennio, ma la pista era anche un foglio da scrivere nel senso letterario della parola, con i nomi degli sponsor.
Maspes si inventò il surplace a pagamento. C’è chi racconta che quei fermi tattici di cui era maestro venivano da un tariffario esposto nel retro di un bar di fronte al Vigorelli.
Lui si fermava sulla scritta giusta a tot al minuto
E se hai le mani, sporche che importa, tienile chiuse nessuno lo saprà…
Mercificazione? Di fronte ai calciatori ritratti in costa Smeralda con borse a tracolla tutte uguali, la furbizia mercantile dei Maspes e dei Borghi sta come il giornalismo dei Brera, o dei Beppe Viola di fronte a quello dei Biscardi.
A ognuno il suo, Come gli va…
Beppe Viola come cultura. Beppe Viola come la San Siro del trotto.
E lui segnava i cavalli da giocare…  Questa è un’altra canzone di Roberto, ma descrive perfettamente i tram verso Piazza Axum sempre pieni prima dell’inizio delle corse ippiche. Incredibile, ma all’ippodromo del trotto, fino a vent’anni fa, per entrare gratis si doveva scavalcare.
Adesso non si paga, anzi i pochi spettatori li devono tirare dentro a forza.
Poi, dopo aver scavalcato il muro accanto alla curva  ti trovavi in tribune ogni giorno dignitosamente colme, perché lì. all’ippodromo,  tra l’euforia della scommessa e l’odore dei cavalli ci stava un mondo che Milano non trovava vano annusare.
La San Siro dei cavalli allora era un microcosmo completo. Strato d’umanità. Migliaia di volti e centinaia di storie. Là chi cercava mondi da dipingere, trovava gli ultimi  “signori” del ‘900 e  i “pomata”.  Trovava la scienza e  la scaramanzia. Il culo e la sfiga. Il senso del quasi sempre perdere. E quello, del quasi mai vincere.
Trovavi le “macchiette” che provavano i giorni come fossero dei “parziali”,  le lancette di un cronometro e un pollice pronto a fare clic, a fermare. Ma a San Siro c’erano anche i poeti, quelli che non s’arrendevano ad una esistenza che non fosse la prestazione perfetta, la buona quota.
All’ippodromo c’era la Milano “mammona”, quella con l’orecchio teso alle dritte di scuderia, quasi sempre sbagliate, e la Milano del “fare da se’”, quella con il “Trotto” nella tasca, bandiera dell’intraprendenza, simbolo della scienza vera.  
Ecco, la morte di  San Siro trotto di qualche tempo fa, è stata l’esempio lampante, vivo, di una società spogliata. La prova fisica del passaggio da un ponendo ponens ad un ponendo tollens che ha  immiserito lo sport e la cultura milanese. Ormai, del trotto di Milano, era restato solo il senso dei “pomata”. Ed è difficile che ad una barzelletta si possa donare il tono dell’eternità.
Forse tutto avviene per un disegno, o forse il senso delle cose è come una sagoma letta nelle nuvole,  eppure la chiusura giusta della vicenda erano state le parole di un politico: “Il trotter ormai è uso di pochi cittadini, e quindi può morire…” E' morto. Fra l'indifferenza generale.
Già, ormai è “l’uso” che giustifica l’esistenza, anche in campo culturale.
L’uso…. La società dei Borghi doveva crescere e aveva bisogno di un generale avanzamento culturale, oggi ci troviamo di fronte ad un mercato che per cui la varietà è un incomodo, come il gusto personale. Il discrimine è l’uso. E amen. 
Per quel che riguarda il calcio…
La San Siro di allora aveva due anelli. Anche lì per non pagare si scavalcava. O si organizzava lo sfondamento. Il calcio era passione.
Passione, Solo quello. Nessuna chiacchiera, dopo. Solo pensieri alla domenica che verrà.
Se c’era violenza che divideva le curve era quella della politica, non il marketing di sciarpe o ingressi omaggio. Se c’era violenza c’erano idee a spiegarla, non retoriche volte solo a lasciare che tutto rimanesse uguale.
Sì, adesso tutto è ordine durante. E chiacchiere infinite tra una partita e l’altra.
Ormai, il prato, il fango e la polvere, il sudore, la rete di una porta che si scuote di pioggia, la virgola di un pallone, l’uomo, il giocatore,  il fiato, l’allenatore, la sconfitta e la vittoria sono solo l’insignificante foglia d’insalata dentro un fast food.
Non viene da scrivere niente. Teniamoci il silenzio, sul calcio. E la possibilità di schiacciare il telecomando per evitare di immergersi nelle ore e ore di nulla e chiacchiere sponsorizzate  che riempiono ogni canale.
“Milano… stavo scherzando… luci a San Siro non ritorneranno più…” Così finisce la canzone da cui avevamo iniziato.
Eppure, per delle luci che si spengono, ne vengono in mente delle altre,  potenti, che si accendono. In un’altra città della padania, ma messa più vicino ai monti, e che forse proprio per questo ha trovato modo di guardare in alto
10 febbraio 2006:
Accanto a quella città, c’è uno stadio,.
E una pedana bianca.
Spoglia.
Luci abbaglianti.
Una bambina.
Su quello stadio, su quella bambina, un miliardo e ottocentomila sguardi. Quelli del mondo intero.
C’è un inno. Quello di Mameli.
Torino olimpica è iniziata così. Una cerimonia che è stata tutto il meglio dell’Italia.
Dallo svuotamento di significato che poteva avere lo sgonfiamento industriale della Fiat, Torino poteva morire, e divenire un dormitorio popolato da prepensionati, immigrati  e malinconie.
Così non è stato. Torino si è aggrappata con tutte le energie a una parole che sembra insolita nell’asfittico dizionario economico di oggi: cultura.
La cultura è cultura. Che sia sportiva, od altro
Torino-città è oggi un crogiolo di eventi culturali. Non un paradiso, ma una città che almeno prova  a pensare.
Tutto torna. Anche se proviamo a far di conto come i salumieri di una volta. Numeri su un foglietto ingiallito e bagnando la matita quando è il momento della somma.
Nel 2004, ogni euro speso in cultura dal comune di Torino al sistema economico della città ne ha fruttati ben 21.
Le olimpiadi, quelle olimpiadi, sono state una scommessa vinta. La rinascita del lingotto è stata una scommessa vinta. La capacità di ospitare eventi mondiali anche di sport secondari, buoni solo ogni 4 anni a dare medaglie e gloria all’Italia, sono, ogni volta, scommesse vinte.
Vai così, Torino. Hai lasciato a noi milanesi i piazzali che si svuotano, le luci che non si accenderanno più, e il profondo, concetto, dell’uso, per decidere della vita, o della morte, delle cose. ci hai provato. Ti resta almeno l'onore delle armi. E lascia anche, a noi milanesi, vere come non mai, le parole del nostro Roberto:
 “Scrivi Vecchioni… scrivi canzoni… che più ne scrivi più sei bravo a far danè…
E se hai le mani sporche, che importa… tienile chiuse… e nessuno lo saprà…”