Chiara Zucchi e Silvia Galimberti: nella povertà di Haiti il villaggio della speranza
E' stato un lungo viaggio: alla scoperta della povertà, ma anche della speranza e dei sorrisi. Chiara Zucchi e Silvia Galimberti, una di Barlassina e l'altra di Seveso, sono andate dal 7 al 14 agosto ad Haiti in qualità di giornaliste per vivere la quotidianità del progetto "Csi per il mondo". Il loro racconto.
Csi Haiti, riprese terminate. Non è la nuova serie del telefilm di successo e non sono immagini che vedrete sul piccolo schermo. Ma sono scene che Chiara Zucchi e Silvia Galimberti, una di Barlassina e l'altra di Seveso, ricorderanno a lungo.
Csi anche laggiù sta per Centro Sportivo Italiano: perché con il progetto "Csi per il mondo", attraverso lo sport, sta cercando di portare valori, rispetto, educazione, speranza. A fari spenti, perché siamo abituati a credere che il disagio e la povertà altrui non ci riguardino.
Non la pensano così le due brianzole. Nostre amiche, colleghe (si occupano della comunicazione di Briantea84, realtà all'avanguardia nel campo della disabilità e dello sport paralimpico), che dal 7 al 14 agosto hanno vissuto da giornaliste quella realtà. Prima di tutto per capirla, poi per fotografarla, filmarla, scriverne ovunque sia possibile. Siamo certi che hanno imparato come in quelle zone povere, dove i soldi non si vedono neanche col binocolo, non si torna a casa con i souvenir, ma si è protagonisti di un baratto molto particolare: si lascia là un pezzo di cuore e si porta a casa un pieno di gioia, sorrisi, dolcezza, entusiasmo. Qui di seguito la loro testimonianza.
L'esperienza di Haiti
Il viaggio ad Haiti è nato quasi per caso: lavoriamo per Briantea84, società sportiva paralimpica di Cantù, dove ci occupiamo di comunicazione e organizzazione di eventi, progetti di sensibilizzazione nelle scuole e promozione. Ma questo non fa di noi delle missionarie. Alla base di tutto c’è solo tanta curiosità e il desiderio di non porsi limiti.
Csi anche laggiù sta per Centro Sportivo Italiano: perché con il progetto "Csi per il mondo", attraverso lo sport, sta cercando di portare valori, rispetto, educazione, speranza. A fari spenti, perché siamo abituati a credere che il disagio e la povertà altrui non ci riguardino.
Non la pensano così le due brianzole. Nostre amiche, colleghe (si occupano della comunicazione di Briantea84, realtà all'avanguardia nel campo della disabilità e dello sport paralimpico), che dal 7 al 14 agosto hanno vissuto da giornaliste quella realtà. Prima di tutto per capirla, poi per fotografarla, filmarla, scriverne ovunque sia possibile. Siamo certi che hanno imparato come in quelle zone povere, dove i soldi non si vedono neanche col binocolo, non si torna a casa con i souvenir, ma si è protagonisti di un baratto molto particolare: si lascia là un pezzo di cuore e si porta a casa un pieno di gioia, sorrisi, dolcezza, entusiasmo. Qui di seguito la loro testimonianza.
L'esperienza di Haiti
Il viaggio ad Haiti è nato quasi per caso: lavoriamo per Briantea84, società sportiva paralimpica di Cantù, dove ci occupiamo di comunicazione e organizzazione di eventi, progetti di sensibilizzazione nelle scuole e promozione. Ma questo non fa di noi delle missionarie. Alla base di tutto c’è solo tanta curiosità e il desiderio di non porsi limiti.
L'opportunità si è presentata due settimane prima della partenza. Il Csi (Centro Sportivo Italiano) organizza da 4 anni un Campo di volontariato sportivo internazionale, un progetto chiamato “Csi per il mondo”, che ha l'obiettivo di introdurre lo sport (pallavolo, calcio, pallacanestro e cheerleading) nella vita dei bambini delle zone più povere o più complesse del mondo e di formare gli animatori locali affinché il lavoro proposto nelle tre settimane di presenza italiana in loco possa trovare continuità durante l'anno. Non c’è solo Haiti, primo avamposto nato nel 2011, ma da quest’anno anche Camerun e Albania.
L'attività del Csi ad Haiti è organizzata in tre centri diversi a Port au Prince (la capitale) e coinvolge quotidianamente circa 900 bambini. I volontari (16 ragazzi tra i 18 e i 35 anni) fanno un lavoro meraviglioso: è quasi impossibile descrivere a parole l'entusiasmo dei bambini alla vista del pick up con i "les blancs" arrivare al campo. Le condizioni di vita ad Haiti sono impietose: manca tutto quello che per noi è considerato basilare. Perché alcune cose sono talmente scontate che sembra impossibile immaginare una vita senza. E non si parla di lusso, ma di dignità. Le case sono baracche, fatte di nulla, spesso non hanno nemmeno tutte le pareti, manca l'acqua potabile, manca il cibo, non ci sono fognature e in molte parti della città manca l'elettricità. Il buio è buio, è la prima sensazione che si prova arrivati ad Haiti, di notte. Gli abbaglianti della macchina che ci ha accompagnati alla Missione dei padri Scalabriniani (la nostra casa ad Haiti) illuminano una realtà che - dall'Italia, prima di partire - non eravamo riusciti a immaginare. Strade fatte di buche che sembrano voragini, persone che immerse nell'oscurità più totale si raccolgono attorno a un qualcosa che, nel suo più totale stato di degrado e sporcizia, non riesci nemmeno a capire cosa sia.
E allora, quando ti rendi conti di come sia la vita ad Haiti, non puoi che provare un brivido sulla pelle quando vedi uscire i bambini dalle loro case non case, con un sorriso che ti fa esplodere il cuore, perché è arrivato il momento dello sport, dei giochi e dei balli. Forse l'unica parentesi di felicità in una vita fatta di una povertà che, in una settimana di osservazione e di infinite domande, non riesci a capire. Forse non si può capire. E ti distrugge. Perché quando non hai nulla vince la legge del più forte. E i bambini sono i più deboli. La distribuzione del pranzo al termine delle attività sportive lascia senza fiato: i volontari mettono i ragazzi in fila e cercano di mantenere ordine. Ne nasce una bolgia, ogni giorno: ci si spinge, i più piccoli sono schiacciati dai più grandi e spesso rimangono senza cibo perché c'è chi strappa il piatto dalle loro mani. C'è chi si infiltra, perché la fame è fame, i genitori spingono i bambini attraverso le reti per far avere loro un piatto di riso. E i numeri raddoppiano nel giro di cinque minuti. C'è chi raccoglie gli avanzi da terra, strappandoli dalle mani dell'altro. L'acqua non c'è, il lusso è un solo bicchiere al giorno. Allora bisogna dire no, perché cibo e acqua non non bastano per tutti. Un no che è difficile da digerire, non solo per chi se lo sente sbattere in faccia ma anche per chi lo pronuncia.
Ad Haiti non abbiamo insegnato sport: abbiamo condiviso con i volontari la vita della missione, l'acqua centellinata, le blatte nelle camere, la corrente che va e viene, la polvere e la terra sempre addosso che ti si attaccano e non se ne vogliono andare. Abbiamo osservato, scattato foto, girato video, raccolto storie. E quando alla sera ascolti i discorsi dei volontari insoddisfatti del bagher che non sono riusciti a insegnare, tu che un po' da esterno hai visto tutti quei bambini sorridere, attaccarsi alle loro gambe e al loro collo come se fossero la cosa più bella che la vita gli abbia mandato, capisci quanto di bello e di straordinario abbiano fatto. Quanto sia meraviglioso lo sport, perché unisce, perché fa dimenticare, perché fortifica, perché è un'opportunità. La speranza degli animatori haitiani di costruirsi un futuro, perché in una realtà in cui la legge è quella della giungla, lo sport ti insegna regole e valori. Per i bambini, che hanno riso e che grazie allo sport hanno imparato a mettersi in fila. E forse, tra qualche anno, riusciranno a non schiacciarsi per prendere il loro piatto di riso e il loro bicchiere d'acqua. E con il loro esempio lo sapranno insegnare, ai più piccoli ma anche ai più grandi.
Un'esperienza da vivere, garantito.
Chiara Zucchi
Silvia Galimberti