Lavoro, Acai: investiamo sulla formazione e sull'apprendistato
Il lavoro non è un diritto, quanto una condizione economica dovuta allo sviluppo imprenditoriale. Lo afferma la sezione provinciale dell'Acai (Associazione cristiana artigiani italiani) che, attraverso il suo presidente
Sandro Mauri, riafferma la necessità di investire sulla formazione e, di conseguenza, anche sull'apprendistato. Il perché è contenuto in questo comunicato che nei giorni scorsi è stato diffuso alla stampa e che anche noi pubblichiamo volentieri per aggiu...
Il lavoro non è un diritto, quanto una condizione economica dovuta allo sviluppo imprenditoriale. Lo afferma la sezione provinciale dell'Acai (Associazione cristiana artigiani italiani) che, attraverso il suo presidente
Sandro Mauri, riafferma la necessità di investire sulla formazione e, di conseguenza, anche sull'apprendistato. Il perché è contenuto in questo comunicato che nei giorni scorsi è stato diffuso alla stampa e che anche noi pubblichiamo volentieri per aggiungere una voce al dibattito sulla riforma del mondo del lavoro.
Il dibattito sul decreto lavoro è da tempo prigioniero di una sterile polemica politica. La discussione, infatti, rimane costretta dentro alcuni aspetti particolari che rappresentano un aspetto riduttivo del problema.
Il lavoro non è un diritto, ma una condizione economica che matura con lo sviluppo imprenditoriale, senza crescita non c'è lavoro, ma soprattutto non ci sono assunzioni. Questo è un principio inconfutabile che nè il Governo nè i sindacati possono aggirare.
Occorre pertanto affrontare la materia con più decisione. In primo luogo sull'istituto dell’apprendistato che trova proprio nel comparto artigiano la sua collocazione naturale, si pensi alla figura di allievo che frequenta la “bottega”, può apprendere non soltanto il mestiere ma altresì quel complesso di cognizioni economiche che sono indispensabili per organizzare in forma autonoma un lavoro produttivo (costi, prezzi, termini di consegna, gusti della clientela, organizzazione del lavoro).
In tutti questi anni e ancora oggi si è preferito vincolare sempre di più questo strumento occupazionale a una formazione formale e pretestuosa, con l'esito di vanificare un'opportunità importante. Non a caso l'apprendistato continua a non decollare: nel 2012 il numero medio di apprendisti è calato del 4,6%, un trend decrescente che prosegue da tempo. In Italia questa forma contrattuale va male soprattutto per i minori, con un decremento addirittura del 41,2%.
Avere più coraggio, come dice il Presidente del Consiglio, significherebbe tornare a considerare l'apprendistato come una occasione in se. Proprio perché prestare la propria opera in una azienda, significa avviare un processo di apprendimento che rimarrà al soggetto in termini di esperienza e conoscenza, da investire (come lavoratore o imprenditore) in termini produttivi per se stesso e per il paese.
L'altro tema al centro della discussione è il contratto a tempo determinato. Anche in questo caso riteniamo assolutamente riduttivo lavorare su accorgimenti di facciata, senza intervenire decisamente sul problema attraverso un reale elemento di rottura. Abbandonando cioè il concetto di precarietà per rilanciare quello di elasticità.
Occorre dunque, anche qui, un'azione di rottura attraverso una riforma vera che consenta alle aziende di mettere in atto, negli interessi generali, la propria politica del personale. Se fosse così non sarebbero necessarie distinzioni tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato.
Un'ultima considerazione deve essere rivolta all'incremento del potere di acquisto di chi lavora. Per rilanciare i consumi, sostenendo la produttività non basta il bonus di 80 euro, andrebbe affrontato con più decisione un provvedimento che estendesse la parte della retribuzione non soggetta a tassazione, oggi riservata ai premi per il raggiungimento di indici definiti contrattualmente. Chiamati impropriamente premi di produzione. Una possibile rivoluzione in questo senso potrebbe essere proposta escludendo dalla pressione fiscale straordinari e superminimi.
Vogliamo produrre uno scatto in avanti in termini di sviluppo imprenditoriale e crescita economica? Dimentichiamo le posizioni di principio: rivalutiamo il “lavoro” in termini di formazione e restituiamo all'apprendistato la funzione per la quale è stato pensato originariamente; smettiamola di parlare di precariato e lasciamo libere le imprese di attuare la propria politica occupazionale. Soprattutto, lasciamo una parte del “valore lavoro” libero dalla pressione fiscale perché si trasformi in capacità di acquisto e stimolo per incrementare la produttività.
Il Presidente
Sandro Mauri
Il dibattito sul decreto lavoro è da tempo prigioniero di una sterile polemica politica. La discussione, infatti, rimane costretta dentro alcuni aspetti particolari che rappresentano un aspetto riduttivo del problema.
Il lavoro non è un diritto, ma una condizione economica che matura con lo sviluppo imprenditoriale, senza crescita non c'è lavoro, ma soprattutto non ci sono assunzioni. Questo è un principio inconfutabile che nè il Governo nè i sindacati possono aggirare.
Occorre pertanto affrontare la materia con più decisione. In primo luogo sull'istituto dell’apprendistato che trova proprio nel comparto artigiano la sua collocazione naturale, si pensi alla figura di allievo che frequenta la “bottega”, può apprendere non soltanto il mestiere ma altresì quel complesso di cognizioni economiche che sono indispensabili per organizzare in forma autonoma un lavoro produttivo (costi, prezzi, termini di consegna, gusti della clientela, organizzazione del lavoro).
In tutti questi anni e ancora oggi si è preferito vincolare sempre di più questo strumento occupazionale a una formazione formale e pretestuosa, con l'esito di vanificare un'opportunità importante. Non a caso l'apprendistato continua a non decollare: nel 2012 il numero medio di apprendisti è calato del 4,6%, un trend decrescente che prosegue da tempo. In Italia questa forma contrattuale va male soprattutto per i minori, con un decremento addirittura del 41,2%.
Avere più coraggio, come dice il Presidente del Consiglio, significherebbe tornare a considerare l'apprendistato come una occasione in se. Proprio perché prestare la propria opera in una azienda, significa avviare un processo di apprendimento che rimarrà al soggetto in termini di esperienza e conoscenza, da investire (come lavoratore o imprenditore) in termini produttivi per se stesso e per il paese.
L'altro tema al centro della discussione è il contratto a tempo determinato. Anche in questo caso riteniamo assolutamente riduttivo lavorare su accorgimenti di facciata, senza intervenire decisamente sul problema attraverso un reale elemento di rottura. Abbandonando cioè il concetto di precarietà per rilanciare quello di elasticità.
Occorre dunque, anche qui, un'azione di rottura attraverso una riforma vera che consenta alle aziende di mettere in atto, negli interessi generali, la propria politica del personale. Se fosse così non sarebbero necessarie distinzioni tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato.
Un'ultima considerazione deve essere rivolta all'incremento del potere di acquisto di chi lavora. Per rilanciare i consumi, sostenendo la produttività non basta il bonus di 80 euro, andrebbe affrontato con più decisione un provvedimento che estendesse la parte della retribuzione non soggetta a tassazione, oggi riservata ai premi per il raggiungimento di indici definiti contrattualmente. Chiamati impropriamente premi di produzione. Una possibile rivoluzione in questo senso potrebbe essere proposta escludendo dalla pressione fiscale straordinari e superminimi.
Vogliamo produrre uno scatto in avanti in termini di sviluppo imprenditoriale e crescita economica? Dimentichiamo le posizioni di principio: rivalutiamo il “lavoro” in termini di formazione e restituiamo all'apprendistato la funzione per la quale è stato pensato originariamente; smettiamola di parlare di precariato e lasciamo libere le imprese di attuare la propria politica occupazionale. Soprattutto, lasciamo una parte del “valore lavoro” libero dalla pressione fiscale perché si trasformi in capacità di acquisto e stimolo per incrementare la produttività.
Il Presidente
Sandro Mauri