Linfomi aggressivi: al San Gerardo chemioterapia senza la necessità del ricovero

MONZA - Non più sei cicli di chemioterapia con ricoveri ospedalieri di 21 giorni: i linfomi aggressivi al San Gerardo, grazie a una tecnica innovativa "importata" dagli Stati Uniti, sono curati permettendo al paziente di rimanere nel suo ambiente familiare

Curare linfomi aggressivi a casa, con la possibilità di fare infusioni di chemioterapia in maniera continua senza essere ricoverati. Prosegue con successo la scelta del nuovo schema di cura adottato dall’Unità di Ematologia dell’ospedale San Gerardo. Si tratta del protocollo R-DA-epoch che prevede l’utilizzo di associazioni chemioterapiche con somministrazione in infusione continua per quattro giorni. Un protocollo che il Centro di Ematologia utilizza per la cura, tra gli altri, di pazienti affetti da linfoma non Hodgkin aggressivo, una malattia con particolari caratteristiche biologiche che conferiscono alle cellule tumorali delle forme di resistenza ai comuni trattamenti chemioterapici utilizzati, con conseguenti ridotte possibilità di guarigione.

“Inizialmente i pazienti venivano ricoverati per una settimana ogni 21 giorni per sei cicli – spiega Pietro Pioltelli, direttore dell’Unità di Ematologia - con evidenti difficoltà psicologiche per il paziente legate ai continui accessi in ospedale e logistiche per i medici, talvolta impossibilitati a causa dell’assenza di posto letto a garantire i tempi del riciclo e il conseguente mantenimento dell’intensità di dose, principale parametro che correla con l’esito del trattamento”.

Da qui i contatti presi con i colleghi del National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, Stati Uniti, che da anni sperimentano un modello di trattamento in ambito ambulatoriale. A supporto la letteratura scientifica che ha pubblicato risultati incoraggianti sul protocollo adottato anche in America sull’infusione continua. In Italia il principale problema per questo tipo di infusione era rappresentato dal timore dei farmacisti di mischiare quattro farmaci chemioterapici in un'unica sacca. 

“I colleghi americani – prosegue Pioltelli - ci hanno inviato i lavori che dimostravano la stabilità dei farmaci in questa formulazione. Abbiamo quindi preso contatti con un’azienda che ci ha fornito pompe infusionali e kit di trasporto (marsupio o zainetto) in comodato d’uso”.

In questo modo, dopo il posizionamento di un catetere venoso centrale per chemioinfusione a permanenza, il paziente inizia il trattamento in regime ambulatoriale il lunedì mattina, ritorna tutti i giorni alle 14 per cambiare la sacca e conclude il trattamento al venerdì con una infusione finale di un quinto farmaco.

Nelle due settimane successive il paziente accede tre mattine al Day Hospital per il prelievo di sangue e viene successivamente contattato telefonicamente dal medico per ricevere i risultati ed eventuali aggiustamenti della terapia di supporto domiciliare. I pazienti sono infatti seguiti passo passo dal personale del Day Hospital di Ematologia, in particolare dal personale infermieristico che ha contribuito alla realizzazione del progetto.

“A tutt’oggi – conferma Pioltelli - abbiamo trattato 20 pazienti con delle valutazioni molto positive in particolar modo da coloro che avevano ricevuto i primi cicli da ricoverati. Con questa modalità organizzativa la permanenza in ospedale è minima e il paziente può vivere la propria quotidianità pur ricevendo un trattamento invasivo, impegnativo e completo. Non meno importante per la struttura è un miglior impiego delle risorse con una riduzione di costi pur mantenendo un livello di possibilità di cura elevato”.

“Un passo avanti nella cura dei linfomi – sottolinea Matteo Stocco, direttore generale della ASST di Monza - con risultati incoraggianti e un passo avanti verso una medicina più umana, più capace di integrare clinica e vita, più rispettosa delle persone, con rapporti meno asimmetrici e più soddisfacenti. Per questo motivi la nostra decisione di curare il paziente a casa. Il reinserimento nell’ambito familiare e sociale riduce gli effetti negativi della ospedalizzazione, quindi i disagi di ordine psicologico, economico e sociale per il paziente e per la sua famiglia e l'individuo e la comunità diventano attori del processo di salute”.


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