Quel giorno di giugno, 37 anni fa: il maresciallo Piantadosi freddato con un colpo alla nuca

MONZA - Per molti il 15 giugno sarà un giorno come tanti altri. Ma per la Vittime del Dovere ha sempre un significato particolare: sarà ricordato il 37esimo anniversario dell'omicidio del maresciallo capo Stefano Piantadosi. Oggi sua figlia è presidente dell'associazione che ha sede in città

Sono passati 37 anni da quel 15 giugno 1980, da  quando il maresciallo capo Stefano Piantadosi non tornò più a casa. Un normalissimo pomeriggio di tarda prima primavera, un  normalissimo servizio di sicurezza durante una gara ciclistica fino a quando, l’occhio acuto del maresciallo capo, all’epoca 44enne sposato e con due figli, individuò tra gli spettatori un personaggio sospetto. Quel personaggio che durante il tragitto sulla gazzella verso la caserma per essere sottoposto ad ulteriori accertamenti, lo freddò senza pietà alla nuca scappando e non venendo mai più catturato.

Oggi – soprattutto dopo il gran parlare che si è fatto  in questa settimana sulla richiesta di “morte dignitosa” per il boss Totò Riina – ci sembra giusto e doveroso ricordare la figura di chi, per mano di un feroce criminale, è stato sottratto prematuramente alla vita e ai suoi cari.

E lo facciamo proprio alla vigilia dell’anniversario della morte del maresciallo capo Stefano Piantadosi, papà di Emanuela Piantadosi presidente dell’Associazione vittime del dovere che ha sede  Monza.

Lo facciamo ricordando la figura del carabiniere, poi decorato nel 2008 con la medaglia d’oro al merito civile per il “chiaro esempio di elette virtù civiche e di altissimo senso del dovere portato fino all’estremo sacrificio”.

Stefano Piantadosi, classe 1936, nativo di Roccabascerana in provincia di Avellino, terzo di quattro figli si era arruolato nell’Arma dei Carabinieri a 20 anni e terminata la Scuola Allievi di Roma era stato destinato al Nord.

Un inizio al Battaglione motorizzato di Milano, poi l’esperienza alla stazione di Pantigliate nel milanese, poi al Nucleo tribunale della Compagnia di comando carabinieri di Milano. Un grande amore e una venerazione per la Benemerita: nel 1960 frequenta il 53esimo corso alla Scuola Allievi Sottoufficiali di Firenze per poi ritornare in Lombardia: prima a Milano poi in Brianza alla Stazione carabinieri di Bernareggio dove viene subito accolto con grande stima e affetto dalla popolazione e dove incontra anche la moglie Enrica. Poi il trasferimento a Limbiate e una carriera di comando nel comasco alla stazione carabinieri di Cantù, poi a Cermenate, Lurago d’Erba e Lomazzo. Fino ad arrivare a Locate Triulzi, un territorio molto delicato che comprendeva anche i comuni di Opera e Pieve Emanuele. Un territorio che viveva in quegli anni il boom della crescita economica ma al tempo stesso anche una brutta pagina di cronaca legata proprio al’emarginazione con un’escalation di furti, rapine e occupazioni abusive.

Sempre in prima linea, instancabile nella passione e nell’amore messo a servizio della sua divisa, Piantadosi è stato ucciso proprio indossandola e lavorando per la sicurezza e la salvaguardia dei suoi cittadini in quella terra che lo aveva accolto con tanto amore.

Un giorno che è rimasto indelebile nelle menti dei suoi cari, un profondo dolore che la figlia Emanuela Piantadosi più di una volta ci ha confidato “si fa sentire soprattutto nei giorni di festa, in quei giorni in cui quel posto a tavola rimane vuoto”.

È per questo che oggi abbiamo deciso di ricordare la figura del maresciallo capo Stefano Piantadosi. Un militare, un carabiniere, ma anche e soprattutto un marito e un papà strappato alla vita e all’affetto dei suoi familiari per mano di un delinquente che con estrema freddezza, mentre il collega di Piantadosi lo stava perquisendo, ha tirato fuori la pistola sparando alla nuca del maresciallo capo che era alla guida dell’auto diretta in caserma per ulteriori accertamenti. Il carabiniere morto sul colpo, quel delinquente poi identificato in Ferruccio Zanoli fuggito senza mai più essere catturato. Piantadosi ci aveva visto bene quando, in mezzo alla folla, individuò quel volto sospetto. Anche dopo avergli chiesto i documenti non lo convinceva, ecco perché aveva deciso di portarlo in caserma. Solo dopo la tragica morte di Piantadosi si scoprì chi era il suo assassino: un feroce omicida evaso dal carcere di Porto Azzurro dove era recluso per scontare 30 anni di pena.

Quel bruttissimo fatto di cronaca non sconvolse solo la Brianza dove Piantadosi era conosciuto e amato. Al suo funerale, celebrato dal Cardinale Carlo Maria Martini era presente anche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

E oggi ci domandiamo davvero se, chi ha ucciso senza pietà un uomo nell’adempimento del suo dovere, merita una “morte dignitosa”?

Barbara Apicella


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