Garofalo (Pd): "Tutte le mie ragioni per votare no al referendum costituzionale"
SEVESO - Presidente del Consiglio comunale, nonché consigliere provinciale. Giorgio Garofalo si dissocia dalla maggioranza dei suoi amici del Partito Democratico che voteranno Sì al referendum costituzionale. E spiega quali sono le ragioni che lo portano a dire No
Data fissata per il referendum costituzionale proposto dal Governo Renzi e, da una parte e dall'altra, una notevole campagna di sensibilizzazione. Con lo schieramento di centrodestra schierato per il No e quello di centrosinistra a sostegno della proposta del premier. Non tutto però. Anche a livello locale, infatti, ci sono persone che prendono le distanze. Dopo la senatrice Lucrezia Ricchiuti c'è un'altra persona del Partito Democratico che si dissocia: è Giorgio Garofalo, Presidente del Consiglio comunale a Seveso nonché consigliere provinciale.
Ci ha inviato uno scritto per spiegare quali sono le ragioni che lo spingeranno ad andare alle urne per dire no. Tuttavia senza pensare che questa sia una spaccatura nel partito che rappresenta, bensì un modo diverso di vedere una questione che può essere considerato solo arricchimento. Un intervento non breve, a dire il vero: ma abbiate la pazienza di leggerlo. Ne vale la pena.
Voterò NO al Referendum Costituzionale.
Ci ha inviato uno scritto per spiegare quali sono le ragioni che lo spingeranno ad andare alle urne per dire no. Tuttavia senza pensare che questa sia una spaccatura nel partito che rappresenta, bensì un modo diverso di vedere una questione che può essere considerato solo arricchimento. Un intervento non breve, a dire il vero: ma abbiate la pazienza di leggerlo. Ne vale la pena.
Voterò NO al Referendum Costituzionale.
In principio
Non voglio maltrattare l’idea di Politica che da sempre custodisco e coltivo.
Non voglio soffocare i principi in cui credo, anche malgrado le evidenze: e mi riferisco a quando la politica offre il volto peggiore. Viene continuamente suggerita l’idea che la politica sia solo una invenzione per parolai. Che sia, in buona sostanza, occasione di spreco. Mentre io ritengo che la politica sia ancora il miglior modo per prendere le decisioni pubbliche. È della cattiva politica che dovremmo, continuamente, chiedere i costi.
Questa riforma rischia di svalutare definitivamente il luogo deputato alla discussione politica. Il Parlamento, infatti, non gode di buona salute già da molto tempo: avrebbe bisogno di una cura. Una cura di tipo culturale che coinvolga la qualità della discussione pubblica di questo Paese. E, invece, il sì a questa riforma è la completa rinuncia al parlamentarismo figlio della Costituzione del ’48. Ma lo ricordo: noi siamo ancora una Repubblica parlamentare, vivaddìo! E lo saremmo anche con la vittoria del “sì” (almeno sulla Carta).
Abbiamo sempre più strumenti di comunicazione e sempre meno disponibilità al confronto. Bel paradosso. Mi si dice “sei con Brunetta”. Oh, ragazzi! I governi passano, la Costituzione resta: stiamo sul pezzo! La Costituzione ci costituisce, dice chi siamo, contribuisce a dare forma e continuità a un sistema (di garanzie).
Non si nasconde che questa riforma della Costituzione risponda a una logica di (ri)accentramento del potere. Che ovviamente non mi trova d’accordo. E ad ogni modo, rendiamocene conto, è l’opposto di quello che dicevamo solo pochi anni fa. Io non abbandono l’idea (il sogno?) di un federalismo responsabile che sappia valorizzare il Paese più “ricco” e vario del mondo.
Un esecutivo più forte? La stabilità di un governo non dipende da una riforma costituzionale e nemmeno da una legge elettorale (democratica): è un fatto di politica anche questo. E anche qui: io non mi sono stancato dei “contrappesi” a tal punto da “rottamare” quelle garanzie così care ai padri costituenti. Vi confido che il referendum non è lo strumento che preferisco per le scelte politiche. O sì, o no: tutto si riduce a un’opzione binaria. Eppure, abbiamo solo questa opportunità per esprimerci sulla Riforma. Non ci saranno altre occasioni.
I due fronti contrapposti stanno utilizzando slogan e formule semplicistiche al fine di convincere gli indecisi a sostenere la propria causa. Purtroppo continua a manifestarsi in maniera sempre più preoccupante una visione della politica come tifoseria, allontanandosi dalla possibilità di un vero confronto (soprattutto in televisione, dove si appiattisce tutto).
Renzi è stato il primo a personalizzare il voto, unendo i suoi destini politici alla vittoria al referendum: un errore madornale che deforma il dibattito e lo allontana dal merito.
Oggi, però, anche molti partiti politici che sostengono il no personalizzano la comunicazione con slogan contro il governo. Io credo che oggi, con questo Referendum, decidiamo molto di più del destino di un governo o di una legislatura. Parliamo del merito, guardiamo bene questa riforma: riguarda la qualità del nostro sistema democratico e il pericolo, derivante dal combinato disposto con la legge elettorale Italicum, di una modifica, nei fatti, del nostro sistema parlamentare: rafforzamento dell’esecutivo in salsa presidenzialista e dimagrimento dei contrappesi. Non sto dicendo che se vince il sì ci sarà una dittatura, non scherziamo: ma che indeboliamo la struttura sulla quale il nostro Stato si è retto dal ’48 in poi, quello sì.
La revisione costituzionale si pone a un livello ben più alto rispetto alla politica quotidiana, ma il modo in cui i media e alcuni partiti politici stanno affrontando la campagna non aiuta il cittadino a comprendere questa sottile e fondamentale differenza. Anche io mi sono sentito spremuto tra le dichiarazioni dei leader (sic!) politici: se Salvini dice “votate no”, mi precipito a votare sì e così via… Ma la cosa più importante (e bella) è quella di recuperare la libertà del proprio pensiero: è una vera liberazione (giusto per stare in tema). Ebbene, ragionate con la vostra testa. Però, prima informatevi, leggete, studiate. È una scelta difficile.
Nel merito
Entriamo un po’ più nel merito della Riforma. Non sintetizzerò le principali modifiche, ma mi limiterò a pronunciare le mie personalissime motivazioni (che in parte – quelle di principio – ho già espresso). Il Senato così come previsto dalla Riforma sarà un pasticcio. Sindaci e consiglieri regionali che si dovranno occupare anche delle questioni “romane”: un doppio lavoro. Per qualcuno sarà anche triplo: già, perché un sindaco, specie di una grande città, sarà costretto a ricoprire anche il ruolo di presidente della città metropolitana. Questo non è umanamente possibile. Il mio auspicio è che si possa in futuro immaginare un Senato davvero espressione dei territori (eletti dai cittadini e legati a doppio filo con il territorio che rappresentano).
Sono rimasto scottato dall’esperienza come consigliere in provincia: ho visto come questa istituzione sia stata svuotata dall’interno. La parte politica è stata esautorata in favore del potere amministrativo (sino al taglio delle risorse che hanno reso impossibile il proseguimento dell’attività: ora ci ritroviamo a elemosinare risorse alla Regione per mandare avanti i nostri servizi essenziali).
Io le provincie le ricostituirei (snellite come vi pare, ma una istituzione intermedia tra comuni e Regione, perlomeno in Lombardia, è necessaria: non possiamo scaricare tutto sui sindaci). Questi senatori part-time godranno dell’immunità parlamentare: così avremo sindaci immuni e sindaci non immuni, consiglieri immuni e consiglieri non immuni.
Una delle motivazioni più in voga dal #bastaunsì è che ci sarebbe un netto abbattimento dei costi, per via della riduzione del numero di senatori e l’eliminazione dell’indennità di carica. A quanto pare i risparmi saranno irrisori. In cambio cediamo rappresentatività e capacità di incidenza: un costo che considero molto più alto. Anche qui, l’esperienza della cosiddetta abolizione delle province dovrebbe insegnarci qualcosa. Il Senato, sul totale della spesa statale, costa lo 0,06 per cento e solo una minima parte verrebbe risparmiata. A farne le spese la partecipazione e la rappresentanza.
Poi si dice “basta con il ping-pong tra Camera e Sanato”. Inizialmente ci credevo, ma i dati che ho visto mettono in luce una netta minoranza di leggi impegnate nella cosiddetta navette. A testimonianza di come il ritardo di approvare leggi importanti (come quella sui diritti civili) sia imputabile a questioni politiche e non procedurali. Per le procedure si potrebbe comunque intervenire sui regolamenti parlamentari, senza toccare la Costituzione. E poi, lo vogliamo dire una volta per tutte? In Italia si legifera troppo! Il problema è ancora la qualità, non la quantità.
Questione di qualità anche per la legge elettorale: invece di assoggettare l’eletto al capopartito bisognerebbe contribuire alla sua connessione con il territorio che lo elegge per stimolare un più attento controllo sociale e una più autentica valutazione del lavoro svolto (fatto salvo il sacrosanto principio di divieto di mandato imperativo).
Il voto a data certa introdotto con questa riforma è uno strumento che il Governo ha a disposizione per chiedere alla Camera di iscrivere con priorità all’ordine del giorno un disegno di legge che ritiene essenziale per l’attuazione del suo programma (deve essere discusso entro 70 giorni, mentre il Senato ha solo 15 giorni per proporre modifiche). Con questo sistema si mortifica il confronto; potrebbe essere la Spada di Damocle sulla testa dei parlamentari. Molti dei miei compagni di partito mi dicono che bisogna votare sì perché questa riforma l’aspettiamo da 30 anni. Ma siamo sicuri che aspettavamo proprio questa riforma? Se andate a rileggervi il programma di Bersani del 2013 (Italia Bene Comune) scoprirete che il nostro segretario di allora nel paragrafo dedicato alla “Democrazia” diceva:
«Dobbiamo sconfiggere l’ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose di un uomo solo al comando. È una strada che l’Italia ha già percorso, e sempre con esiti disastrosi. […] Per noi il populismo è il principale avversario di una politica autenticamente popolare. […] La sola vera risposta al populismo è in una partecipazione rinnovata come base della decisione. E questo perché la crisi della democrazia non si combatte con “meno” ma con “più” democrazia. Il che significa il rispetto delle regole, una netta separazione dei poteri e l’applicazione corretta e integrale di quella Costituzione che rimane tra le più belle e avanzate del mondo. In questo siamo convinti che il suo progetto di trasformazione civile, economica e sociale sia vitale e per buona parte ancora da mettere in atto».
E in tema di accentramento del potere, la si vedeva in maniera completamente opposta:
«Riformuleremo un federalismo responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese».
Infine, l’argomento che va per la maggiore in questi ultimi giorni afferma che una vittoria del sì aiuterebbe l’economia del nostro Paese. Non ci casco. Non è così, checché ne dica l’ambasciatore americano. E anche fosse vero, rivendico il primato della politica sull’economia. Sulla legge elettorale, qui e là, ho già detto qualcosa: aggiungo solo che non mi piacciono le candidature multiple che l’Italicum concede aumentando la sfasatura tra corpo elettorale ed eletto.
Prima di chiudere vorrei esprimere meglio un concetto per me cruciale. Come avrete capito sono allergico a questo continuo accanimento sui costi della politica: mi concentrerei sui costi della cattiva politica. Ma questo non significa che non credo sia giusto agire sui privilegi (eliminandoli) tenendo ben presente che alcune condizioni possono sembrare di privilegio ma assumono un fondamentale valore di garanzia.
P.S.: io sono per un Partito democratico plurale. Quando per moderare un dibattito sul lavoro giovanile sono entrato alla Festa dell’Unità del Parco di Monza e ho visto i banchetti di Anpi e Cgil, i primi ad esporre le ragioni del no e i secondi per farci firmare la Carta dei diritti universali del lavoro, ho preso una boccata di ossigeno.
Giorgio Garofalo
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