Il Comune ricorda Arpad Weisz: tre scudetti vinti in Italia, poi la morte ad Auschwitz
ALBIATE - Un incontro originale ma ricco di significato quello organizzato dal Comune per la Giornata della Memoria: si commemora Arpad Weisz, uno scudetto vinto da allenatore con l'Inter, altri due col Bologna, poi in fuga dall'Italia per le leggi razziali. E, purtroppo, deportato ad Auschwitz dov'è finito in una camera a gas.
La storia di una persona nell'Olocausto: è quella di Arpad Weisz che l'amministrazione comunale di Albiate nella serata di oggi, mercoledì 27 gennaio (alle 21 in villa Campello), ha deciso di riproporre. Una storia singolare, nelle atrocità della guerra e nei milioni di pagine che sono state scritte sui campi di concentramento.
Pochi si ricordano di questo ungherese, anche i più appassionati del mondo del calcio. Forse perché appartiene a un'altra epoca, ma nel suo breve passaggio in Italia ha lasciato più di un segno tanto da passare alla storia.
Nato nel 1896, Weisz vanta una breve e tardiva carriera da calciatore. Piedi discreti, tanto da farsi apprezzare prima in patria a Budapest, poi a Brno (attuale Repubblica Ceca) nella squadra ebraica, infine l'arrivo in Italia: al Padova e, la stagione successiva, all'Inter con 11 partite giocate e 3 reti segnate.
Quell'esperienza è l'ultima sul campo giocato. A soli 30 anni. Va a farsi le ossa come allenatore all'Alessandria e in Sudamerica e, a soli 34 anni, nel 1929/30, il primo campionato a girone unico, vince lo scudetto alla guida dell'Inter (allora Ambrosiana Inter). Nessun allenatore nella storia del calcio italiano vincerà mai più uno scudetto a quella giovane età.
Scopritore di Giuseppe Meazza, vincerà di nuovo il tricolore ma a Bologna: nel 1935/36 e nel 1936/37. Poi, nel 1938, a causa dell'introduzione delle leggi razziali, è costretto a lasciare l'Italia, scegliendo come meta i Paesi Bassi.
Non è fortunato: con l'invasione tedesca la famiglia viene catturata nel 1942. Moglie e figli, finiscono subito nelle camere a gas. Lui viene risparmiato per qualche tempo, destinato ai lavori forzati, finché nella mattina del 31 gennaio 1944, viene eliminato allo stesso modo.
Stasera un incontro su di lui in villa Campello: perché l'Olocausto ci insegna che quando l'odio e il razzismo prevalgono, non guardano in faccia a nessuno.
Pochi si ricordano di questo ungherese, anche i più appassionati del mondo del calcio. Forse perché appartiene a un'altra epoca, ma nel suo breve passaggio in Italia ha lasciato più di un segno tanto da passare alla storia.
Nato nel 1896, Weisz vanta una breve e tardiva carriera da calciatore. Piedi discreti, tanto da farsi apprezzare prima in patria a Budapest, poi a Brno (attuale Repubblica Ceca) nella squadra ebraica, infine l'arrivo in Italia: al Padova e, la stagione successiva, all'Inter con 11 partite giocate e 3 reti segnate.
Quell'esperienza è l'ultima sul campo giocato. A soli 30 anni. Va a farsi le ossa come allenatore all'Alessandria e in Sudamerica e, a soli 34 anni, nel 1929/30, il primo campionato a girone unico, vince lo scudetto alla guida dell'Inter (allora Ambrosiana Inter). Nessun allenatore nella storia del calcio italiano vincerà mai più uno scudetto a quella giovane età.
Scopritore di Giuseppe Meazza, vincerà di nuovo il tricolore ma a Bologna: nel 1935/36 e nel 1936/37. Poi, nel 1938, a causa dell'introduzione delle leggi razziali, è costretto a lasciare l'Italia, scegliendo come meta i Paesi Bassi.
Non è fortunato: con l'invasione tedesca la famiglia viene catturata nel 1942. Moglie e figli, finiscono subito nelle camere a gas. Lui viene risparmiato per qualche tempo, destinato ai lavori forzati, finché nella mattina del 31 gennaio 1944, viene eliminato allo stesso modo.
Si deve al giornalista Matteo Marani la riscoperta della sua figura, grazie al libro "Dallo scudetto ad Auschwitz" dato alle stampe nel 2007. Nel 2009 Weisz è stato commemorato per la prima volta dal Comune di Bologna che gli ha dedicato una targa allo stadio Dall'Ara. Nel 2012 altra targa a San Siro per il tecnico del terzo scudetto nerazzurro.
Stasera un incontro su di lui in villa Campello: perché l'Olocausto ci insegna che quando l'odio e il razzismo prevalgono, non guardano in faccia a nessuno.